
di Emanuele Zanardini
– Comunque hai ragione.
– Certo che ho ragione. Sono io quello del quadro! – La maestra Marta aveva chiesto a ognuno di ritrarre un compagno di classe.
– Non dicevo quello. Parlavo di te. Non sei mai stato bravo a venderti.
Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Non sei mai stato bravo a venderti – Milo
Il ragazzo dell’Ireland pubci fa accomodare nella saletta riservata, tutta per noi. Alla parete sono appese copie di foto già viste nello studio di Daniele. È molto amico del padrone, così gli ha regalato diverse sue opere. Sono scorci in bianco e nero di New York. Tagli di luce.
Siedo dallo stesso lato di Fede, ma metto tra noi quattro sedie. Non voglio dover distogliere lo sguardo in continuazione da lei. Daniele, a capotavola, le tiene la mano sul tavolo, le dita intrecciate.
Nell’attesa Giorgio e l’altro ragazzo, di fronte a me, non hanno intenzione di smettere di discutere di macchine fotografiche. È nota la disputa tra i fan di Canon e Nikon. Un po’ come domandarsi chi è nato prima, l’uovo o la gallina.
Daniele scatta in piedi. – Ragazzi, mentre aspettiamo di mangiare vi consegno i diplomi.
Fede fa passare un pacco di cartoncini con il dito e li porge a uno a uno. Quando chiama me, non mi guarda neppure. Un altro ineluttabile segno del destino.
– Bene, ragazzi, sono soddisfatto di voi, – dice Daniele, – ho visto dei bei lavori. Complimenti. Ho pensato di premiare lo scatto che ritengo migliore. Il vincitore mangerà gratis. Gentile omaggio del padrone di casa.
Giorgio è la maschera della soddisfazione. Scommetto che sta pensando a quale delle sue foto potrebbe essere la vincitrice. Così la delusione è più cocente, quando Daniele mostra un’opera di Fede. Lei, sulle prime non capisce. Poi sembra fingere sorpresa.
Lo bacia platealmente sulla bocca.
Tutti applaudono, tranne Giorgio.
E me.
Tre indizi fanno una prova, ma questo non lenisce la mia sofferenza.D
Non sei mai stato bravo a venderti – Cassie
La compagnia dei ragazzi è piacevole. Saverio è arrivato alla terza birra, ma l’occhio è ancora vivido. Avvampo ogni volta che mi fissa intensamente. Un po’ troppo.
Per dissimulare ordino ancora una lattina di tè al limone. L’hamburger l’ho divorato in tre secondi, ma le patatine ormai sono fredde.
– Ti dispiace se le finisco io? No?
– Prendile. Sono già piena.
Ancora la stessa sensazione di disagio. Mi rifugio nella solidarietà femminile di Cris e Greta.
Greta gioca con i capelli, arricciando una ciocca sul dito. Fissa un altro tavolo. Credo abbia visto un tizio interessante, io sono di spalle e posso solo immaginarlo.
Cris è sarcastica. – Hai capito, adesso, perché si è data così da fare con il trucco?
– È carino almeno?
– Ne ha rimorchiati di peggiori.
Trattengo un risolino. – Da quanto vi conoscete?
Ci pensa su un po’.
– Non voglio sapere quanti giorni con precisione, – aggiungo, ridendo, ma piano, per non farmi notare troppo da Greta. Avrà capito che stiamo parlando di lei?
– Sono otto anni. Dalla prima superiore. Ma non eravamo nella stessa classe. Anzi, all’inizio non la sopportavo neanche! Sa fare la saccente, quando ci si mette. Comunque, la prima volta che ci siamo parlate, io volevo strapparle gli occhi, giuro!
Apro la bocca, sbigottita, ma Cris prosegue: – Stava guardando un ragazzo che piaceva anche a me, con lo stesso sguardo di stasera. Sembra una pronta a succhiarti tutta la linfa vitale! – Ride.
– Che c’è da ridere, si può sapere? – Greta s’è accorta delle nostre risatine.
Mi punta. Sprofonderei nel pavimento, se potessi, ma Cris viene in mio aiuto. – È finito lo spettacolo?
Greta sbuffa. – Almeno era gratis.
Le due scoppiano in una risata liberatoria. Anche io mi lascio andare. Greta mi strizza l’occhio.
– Scherzavo, Cassiopea.
Mi irrigidisco di nuovo e lei sembra compiacersene. Nessuno mi chiama più con il nome intero – tranne mamma. È abbastanza pesante, non trovate?
– Chiamami Cassie. È più facile.
– A me Cassiopea piace un sacco. Ti hanno chiamato così perché il sogno dei tuoi genitori è mandarti nello spazio?
Saverio fa sentire la sua voce dopo molto tempo. – E lasciala stare, Gre. È appena arrivata, vuoi già farla scappare? – Allunga la mano e mi tocca l’avambraccio, complice.
Mi chiedo se ha qualche intenzione di provarci. Non è mister universo, però potrebbe essere interessante. Solo un po’ vecchio?
– Avete bisogno del bagno, ragazze? – chiede Cris, alzandosi.
Provvidenziale, ho una scusa per allontanarmi da lui.
Greta la imita.
– Vieni, Cassiopea?
Devo avere un’espressione un po’ idiota.
– Noi cittadinein bagno si va almeno in tre, non lo sai? – dice Greta come una maestra pedante.
Naturalmente non lo so. Ma mi adeguo, pur di prendere un po’ le distanze.
Mentre le attendo, hanno occupato i due gabinetti, mi lavo la faccia. Comincio a sentire il sonno. L’altra me nello specchio sa che è arrivato il momento di pensare al domani.
Ritornando in sala mi attirano le voci provenienti da una seconda stanza. Una compagnia chiassosa. Brindano a qualcosa.
– Cassie?
Cris sposta il mio equilibrio verso l’altra parte del pub. – Vengo.
Saverio attende seduto al tavolo. – Non hai finito il tuo tè, – mi fa notare.
Prendo il bicchiere e butto giù tutto. Ha un sapore strano. Mi lascia in bocca un sentore leggermente metallico, come di sangue.
Uno sbadiglio prende il sopravvento, mentre indosso il paltò. Saverio mi aiuta a infilare il braccio.
– Grazie.
– Non c’è di che.
Il suo sguardo è più vivo che mai.
– Portiamo a casa prima le ragazze. Abitano dall’altra parte della città.
Cerco di domare un altro sbadiglio. Penso che in auto mi addormenterò.
Non sei mai stato bravo a venderti – Milo
Bilancio della serata: no comment.
Avevo percepito qualcosa tra Daniele e Fede, ma vederselo sbattere in faccia così, fa male lo stesso. Una volta chiarito che l’obiettivo era sfumato, ho preso tutto più alla leggera. Ho scherzato con Federica riguardo al suo premio. Lei stessa mi ha confessato di ritenere la propria fotografia uno scatto approssimativo. E ha aggiunto che avrebbe dato il premio a Giorgio.
Ci perdemmo di vista dopo la prima elementare. Io e Fede.
Non sei mai stato bravo a venderti – Cassie
Devo fare qualcosa domani. Non ricordo cosa… devo fare qualcosa. Domani.
Non oggi. Adesso devo dormire.
Se non dormo non arriverà domani.
Sono nel mio letto? Vorrei essere nel mio letto. Affondare la faccia nel cuscino vaporoso, sentire il peso del piumino sulla pelle nuda.
Sono a bordo del Nottetempo? Su una carrozza che diventerà una zucca? Su un veliero fantasma?
Non sei mai stato bravo a venderti – Milo
Poi… Ero da solo, un pomeriggio dell’estate scorsa che si moriva di caldo. Giulio mi voleva mettere alla prova, lavoravo con lui da un mese ormai. Suonai il campanello. Il nome sulla targhetta non mi diceva niente. Mi riconobbe lei. Io rimasi lì, interdetto, a fissare i suoi occhi verde smeraldo.
– Va tutto bene?
Distolsi lo sguardo, per non mostrare il mio turbamento.
Mi invitò a bere un caffè. Accettai, nonostante tutto.
Aveva fatto il liceo classico e poi lingue, raccontò, mentre preparava la caffettiera. Ascoltai in silenzio, osservando la stanza.
Casa sua era piccola, ma molto ordinata, come ricordavo era lei da bambina. Anche i fogli dattiloscritti di un romanzo che stava traducendo, allineati sovrapposti per metà uno sull’altro, segnati di rosso e blu. Solo scrittori sconosciuti, disse, o astrusi trattati di scienziati pazzi.
Alle elementari, alla campanella delle 8,15 il suo banco era già preparato a puntino. Le matite, le biro, la gomma, disposte in ordine sul bordo del banco, non cadevano mai. Ogni volta che Fede utilizzava un oggetto, lo rimetteva al suo posto. Almeno finché il suovicino di banco, con la scusa di aver dimenticato qualcosa, non sovvertiva l’ordine naturale delle cose.
Io mi affannavo alla ricerca degli attrezzi del mestiere che non trovavo. Svuotavo l’astuccio sul banco e ogni cosa rotolava via.
Compunto, facevo il sostenuto, sotto il suo sguardo di commiserazione.
Cercai qualcosa per trarmi d’impaccio e la trovai in un disegno infantile, appeso alla parete. Mi sembrò di riconoscerlo.
Perché quello nel disegno ero io.
– Hai ancora il mio ritratto!
– Quale ritratto?
– Quello! Me lo hai fatto a scuola, sono sicuro.
Rise. – Ma non sei tu.
– Scommetti? Con la maestra Marta.
– Può darsi, ma perché dovresti essere proprio tu, nell’unico quadro che ho mai dipinto in vita mia?
Sfoggiai il sorriso di Jim Carrey in The Mask, il primo ruolo con il quale mi ero cimentato al corso di doppiaggio.
– Perché ti piacevo. Me lo avevi confessato tu, giuro! – affermai spavaldo, ma in realtà era vero il contrario.
E lei rispose con una smorfia da non ci provare. –Eravamo solo bambini, – troncò la discussione, in mezzo agli effluvi di caffè.
Quando lo portò, ritrovai nel vassoio tutta la sua puntigliosità.
Mi chiese del mio lavoro.
– La prima cosa che insegnano ai rappresentanti non è saper vendere il prodotto, sai?
– E cosa?
– Vendere se stessi, – pontificai.
– Non eri un bambino molto espansivo, se ricordo bene.
Avevo messo due cucchiaini di zucchero, ma il caffè era amaro come fiele.
Si alzò per sparecchiare. Lasciai cadere il discorso, perché aveva ragione. Osservai il lato B dalla porta. Una piccola, meschina rivincita.
Dalla cucina disse che preferiva le fotografie e che avrebbe frequentato un corso. Colsi l’occasione al balzo, finsi di essere mooolto interessato anche io.
Ritornò che sembrava un pistolero pronto al duello.
– Comunque hai ragione.
– Certo che ho ragione. Sono io quello del quadro! – La maestra Marta aveva chiesto a ognuno di ritrarre un compagno di classe.
– Non dicevo quello. Parlavo di te. Non sei mai stato bravo a venderti.
Mi iscrissi al corso solo per stare con lei. Sembrava un segno del destino averla incontrata, così per caso, dopo vent’anni.
Mi capita di innamorarmi almeno una volta al giorno. Durante la serata in un locale. Per strada. Alla fermata di un autobus.
Mi attira la capacità delle ragazze di ridere in pubblico; di tenersi per mano, incuranti di sguardi di biasimo; parlare ad alta voce dei fatti propri; lamentarsi di qualcosa che non va nel mondo e ricevere le scuse per il disagio da parte di uno sconosciuto.
La loro aria da extraterrestreche guarda la navicella spaziale volare via.
Mi rifugio nell’abitacolo. La gabbia di Faraday che mi isola dai rovesci della vita.
Lungo il tragitto non incrocio nessuno. Anche i clienti delle prostitute se ne sono rimasti a casa, stasera?
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