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Ma i sopravvissuti non piangono

Ma i sopravvissuti non piangono - Anteprima di Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

Mamma, è stato terribile! Lui era sopra di me. Sento ancora il suo odore…
Stringo gli occhi pieni di pianto.
Ma i sopravvissuti non piangono.

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Ma i sopravvissuti non piangono – Milo

Disegno un disco volante sul vetro appannato. E penso a te.

Ma quale delle due?

Uscito di casa, questa mattina mi è parso facesse più freddo. Non faccio molto caso alle previsioni del tempo. Potrebbero aver annunciato una nuova glaciazione, nel frattempo.

Nella striscia di verde che costeggia la strada passeggia una ragazza. Tiro l’occhio per vedere com’è. Ha un paltò alla moda, sul marroncino, a scacchi irregolari. Controlla che il cane non si butti sotto le ruote di qualche auto. La bestiola affonda il muso tra i rami di un cespuglio. La coda ritta, come se avesse captato un messaggio dall’universo profondo.

Questa cosa degli extraterrestri mi è rimasta in testa.

L’autobus è di nuovo bloccato. Nessuno se ne cruccia, in verità.

Mi appoggio la borsa sulle gambe e ne estraggo i cataloghi. Verifico che le lettere non si siano mescolate. In Fahrenheit 451 gli uomini-libro li imparerebbero a memoria. 

Speravo di riuscire almeno a buttare giù un cappuccino e brioche al bar, prima del corso di aggiornamento. Non vorrei disturbare il relatore con i gorgoglii del mio stomaco. Sarebbe imbarazzante, nel silenzio attento dei colleghi. Ma questo ritardo mi sta rovinando i piani. Sono già le 8,30.

La protesta comincia a serpeggiare tra i sedili.

L’autista si alza e si profonde in giustificazioni. – Mi dispiace, signori, ma dovete scendere.

Inutili. La rabbia dei passeggeri si ripercuote sulle poltroncine.

Un’ambulanza passa a tutta velocità, con la sua coda di sirena. Ci sarà stato un incidente, commentano due signore. Sollevate dal fatto che ci sia sempre chi sta peggio di te.

Penso alle alternative. Tagliare per la stazione, la via più breve.

Rimetto tutto in borsa e scendo. Altri, pochi, seguono il mio esempio.

Il corpo si riscalda dopo i primi passi poderosi. I condomini grigi danno un senso compiuto al concetto di quartiere dormitorio. Penso a quanta solitudine ci sia, pure in mezzo alla moltitudine delle attese e delle delusioni.

Spesso siamo lasciati soli ad affrontarne le conseguenze.

Ma i sopravvissuti non piangono – Cassie

Il pavimento è gelido. L’aria è gelida. Io sono gelida.

Un corpo imprigionato nell’immobilità. È così che immagino la morte.

L’ho desiderata, questa notte.

Forse sto delirando. La stanchezza ha fatto presa sui nervi. Per fortuna il cuore ha esaurito la sua cavalcata frenetica. Ho cercato di dormire, ma lo sguardo fisso dei suoi occhi, così vivi, folli, mi ha impedito di prendere sonno. E poi, avevo il terrore che tornasse a…

Ma i sopravvissuti non piangono – Milo

La vecchia rimessa dei treni è in stato di degrado. Non ripara più il vecchio locomotore, corroso dalla ruggine, e il suo ultimo vagone merci. Hanno accumulato qui la terra scavata per i lavori di ammodernamento della stazione. Cumuli enormi, che nascondono la vista dell’edificio nuovo.

I vagoni mi attirano. Mi immagino gambe a penzoloni, seduto sul pavimento di legno. Sotto il sedere il tumultuoso, martellante andare del treno, in corsa verso la fine del mondo.

Chiunque viaggia verso la fine del proprio mondo. Spesso senza decidere neppure la direzione. La destinazione è unica.

Cos’era?

Ma i sopravvissuti non piangono – Cassie

La faccia mi pulsa, credo che mi abbia picchiata. Ma può anche darsi che sia caduta mentre scappavo… Ho male in ogni centimetro di corpo. Solo il freddo ha sedato il dolore. 

Stavo per addormentarmi e… un momento dopo stavo correndo. Correvo e devo aver inciampato… mi fa male il ginocchio. Temo che muovendo un braccio o una gamba mi possano assalire fitte insopportabili.

Insopportabili come i suoi respiri. E i miei, che mi fanno capire di essere ancora viva. Viva?

Mamma, è stato terribile! Lui era sopra di me. Sento ancora il suo odore…

Stringo gli occhi pieni di pianto.

Ma i sopravvissuti non piangono.

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Il destino di stelle cadenti, dal 15 febbraio 2019 negli stores online e in libreria

Non sei mai stato bravo a venderti

Non sei mai stato bravo a venderti - Anteprima di Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

– Comunque hai ragione.
– Certo che ho ragione. Sono io quello del quadro! – La maestra Marta aveva chiesto a ognuno di ritrarre un compagno di classe.
– Non dicevo quello. Parlavo di te. Non sei mai stato bravo a venderti.

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Non sei mai stato bravo a venderti – Milo

Il ragazzo dell’Ireland pubci fa accomodare nella saletta riservata, tutta per noi. Alla parete sono appese copie di foto già viste nello studio di Daniele. È molto amico del padrone, così gli ha regalato diverse sue opere. Sono scorci in bianco e nero di New York. Tagli di luce.

Siedo dallo stesso lato di Fede, ma metto tra noi quattro sedie. Non voglio dover distogliere lo sguardo in continuazione da lei. Daniele, a capotavola, le tiene la mano sul tavolo, le dita intrecciate.

Nell’attesa Giorgio e l’altro ragazzo, di fronte a me, non hanno intenzione di smettere di discutere di macchine fotografiche. È nota la disputa tra i fan di Canon e Nikon. Un po’ come domandarsi chi è nato prima, l’uovo o la gallina.

Daniele scatta in piedi. – Ragazzi, mentre aspettiamo di mangiare vi consegno i diplomi.

Fede fa passare un pacco di cartoncini con il dito e li porge a uno a uno. Quando chiama me, non mi guarda neppure. Un altro ineluttabile segno del destino.

– Bene, ragazzi, sono soddisfatto di voi, – dice Daniele, – ho visto dei bei lavori. Complimenti. Ho pensato di premiare lo scatto che ritengo migliore. Il vincitore mangerà gratis. Gentile omaggio del padrone di casa.

Giorgio è la maschera della soddisfazione. Scommetto che sta pensando a quale delle sue foto potrebbe essere la vincitrice. Così la delusione è più cocente, quando Daniele mostra un’opera di Fede. Lei, sulle prime non capisce. Poi sembra fingere sorpresa.

Lo bacia platealmente sulla bocca.

Tutti applaudono, tranne Giorgio.

E me.

Tre indizi fanno una prova, ma questo non lenisce la mia sofferenza.D

Non sei mai stato bravo a venderti – Cassie

La compagnia dei ragazzi è piacevole. Saverio è arrivato alla terza birra, ma l’occhio è ancora vivido. Avvampo ogni volta che mi fissa intensamente. Un po’ troppo.

Per dissimulare ordino ancora una lattina di tè al limone. L’hamburger l’ho divorato in tre secondi, ma le patatine ormai sono fredde.

– Ti dispiace se le finisco io? No?

– Prendile. Sono già piena.

Ancora la stessa sensazione di disagio. Mi rifugio nella solidarietà femminile di Cris e Greta.

Greta gioca con i capelli, arricciando una ciocca sul dito. Fissa un altro tavolo. Credo abbia visto un tizio interessante, io sono di spalle e posso solo immaginarlo.

Cris è sarcastica. – Hai capito, adesso, perché si è data così da fare con il trucco?

– È carino almeno?

– Ne ha rimorchiati di peggiori.

Trattengo un risolino. – Da quanto vi conoscete?

Ci pensa su un po’.

– Non voglio sapere quanti giorni con precisione, – aggiungo, ridendo, ma piano, per non farmi notare troppo da Greta. Avrà capito che stiamo parlando di lei?

– Sono otto anni. Dalla prima superiore. Ma non eravamo nella stessa classe. Anzi, all’inizio non la sopportavo neanche! Sa fare la saccente, quando ci si mette. Comunque, la prima volta che ci siamo parlate, io volevo strapparle gli occhi, giuro!

Apro la bocca, sbigottita, ma Cris prosegue: – Stava guardando un ragazzo che piaceva anche a me, con lo stesso sguardo di stasera. Sembra una pronta a succhiarti tutta la linfa vitale! – Ride.

– Che c’è da ridere, si può sapere? – Greta s’è accorta delle nostre risatine.

Mi punta. Sprofonderei nel pavimento, se potessi, ma Cris viene in mio aiuto. – È finito lo spettacolo?

Greta sbuffa. – Almeno era gratis.

Le due scoppiano in una risata liberatoria. Anche io mi lascio andare. Greta mi strizza l’occhio.

– Scherzavo, Cassiopea.

Mi irrigidisco di nuovo e lei sembra compiacersene. Nessuno mi chiama più con il nome intero – tranne mamma. È abbastanza pesante, non trovate?

– Chiamami Cassie. È più facile.

– A me Cassiopea piace un sacco. Ti hanno chiamato così perché il sogno dei tuoi genitori è mandarti nello spazio?

Saverio fa sentire la sua voce dopo molto tempo. – E lasciala stare, Gre. È appena arrivata, vuoi già farla scappare? – Allunga la mano e mi tocca l’avambraccio, complice.

Mi chiedo se ha qualche intenzione di provarci. Non è mister universo, però potrebbe essere interessante. Solo un po’ vecchio?

– Avete bisogno del bagno, ragazze? – chiede Cris, alzandosi.

Provvidenziale, ho una scusa per allontanarmi da lui.

Greta la imita.

– Vieni, Cassiopea?

Devo avere un’espressione un po’ idiota.

– Noi cittadinein bagno si va almeno in tre, non lo sai? – dice Greta come una maestra pedante.

Naturalmente non lo so. Ma mi adeguo, pur di prendere un po’ le distanze.

Mentre le attendo, hanno occupato i due gabinetti, mi lavo la faccia. Comincio a sentire il sonno. L’altra me nello specchio sa che è arrivato il momento di pensare al domani.

Ritornando in sala mi attirano le voci provenienti da una seconda stanza. Una compagnia chiassosa. Brindano a qualcosa.

– Cassie?

Cris sposta il mio equilibrio verso l’altra parte del pub. – Vengo.

Saverio attende seduto al tavolo. – Non hai finito il tuo tè, – mi fa notare.

Prendo il bicchiere e butto giù tutto. Ha un sapore strano. Mi lascia in bocca un sentore leggermente metallico, come di sangue.

Uno sbadiglio prende il sopravvento, mentre indosso il paltò. Saverio mi aiuta a infilare il braccio.

– Grazie.

– Non c’è di che.

Il suo sguardo è più vivo che mai.

– Portiamo a casa prima le ragazze. Abitano dall’altra parte della città.

Cerco di domare un altro sbadiglio. Penso che in auto mi addormenterò.

Non sei mai stato bravo a venderti – Milo

Bilancio della serata: no comment.

Avevo percepito qualcosa tra Daniele e Fede, ma vederselo sbattere in faccia così, fa male lo stesso. Una volta chiarito che l’obiettivo era sfumato, ho preso tutto più alla leggera. Ho scherzato con Federica riguardo al suo premio. Lei stessa mi ha confessato di ritenere la propria fotografia uno scatto approssimativo. E ha aggiunto che avrebbe dato il premio a Giorgio.

Ci perdemmo di vista dopo la prima elementare. Io e Fede.

Non sei mai stato bravo a venderti – Cassie

Devo fare qualcosa domani. Non ricordo cosa… devo fare qualcosa. Domani.

Non oggi. Adesso devo dormire.

Se non dormo non arriverà domani.

Sono nel mio letto? Vorrei essere nel mio letto. Affondare la faccia nel cuscino vaporoso, sentire il peso del piumino sulla pelle nuda.

Sono a bordo del Nottetempo? Su una carrozza che diventerà una zucca? Su un veliero fantasma?

Non sei mai stato bravo a venderti – Milo

Poi… Ero da solo, un pomeriggio dell’estate scorsa che si moriva di caldo. Giulio mi voleva mettere alla prova, lavoravo con lui da un mese ormai. Suonai il campanello. Il nome sulla targhetta non mi diceva niente. Mi riconobbe lei. Io rimasi lì, interdetto, a fissare i suoi occhi verde smeraldo.

– Va tutto bene?

Distolsi lo sguardo, per non mostrare il mio turbamento.

Mi invitò a bere un caffè. Accettai, nonostante tutto.

Aveva fatto il liceo classico e poi lingue, raccontò, mentre preparava la caffettiera. Ascoltai in silenzio, osservando la stanza.

Casa sua era piccola, ma molto ordinata, come ricordavo era lei da bambina. Anche i fogli dattiloscritti di un romanzo che stava traducendo, allineati sovrapposti per metà uno sull’altro, segnati di rosso e blu. Solo scrittori sconosciuti, disse, o astrusi trattati di scienziati pazzi.

Alle elementari, alla campanella delle 8,15 il suo banco era già preparato a puntino. Le matite, le biro, la gomma, disposte in ordine sul bordo del banco, non cadevano mai. Ogni volta che Fede utilizzava un oggetto, lo rimetteva al suo posto. Almeno finché il suovicino di banco, con la scusa di aver dimenticato qualcosa, non sovvertiva l’ordine naturale delle cose.

Io mi affannavo alla ricerca degli attrezzi del mestiere che non trovavo. Svuotavo l’astuccio sul banco e ogni cosa rotolava via. 

Compunto, facevo il sostenuto, sotto il suo sguardo di commiserazione.

Cercai qualcosa per trarmi d’impaccio e la trovai in un disegno infantile, appeso alla parete. Mi sembrò di riconoscerlo.

Perché quello nel disegno ero io.

– Hai ancora il mio ritratto!

– Quale ritratto?

– Quello! Me lo hai fatto a scuola, sono sicuro.

Rise. – Ma non sei tu.

– Scommetti? Con la maestra Marta.

– Può darsi, ma perché dovresti essere proprio tu, nell’unico quadro che ho mai dipinto in vita mia?

Sfoggiai il sorriso di Jim Carrey in The Mask, il primo ruolo con il quale mi ero cimentato al corso di doppiaggio.

– Perché ti piacevo. Me lo avevi confessato tu, giuro! – affermai spavaldo, ma in realtà era vero il contrario.

E lei rispose con una smorfia da non ci provare. –Eravamo solo bambini, – troncò la discussione, in mezzo agli effluvi di caffè. 

Quando lo portò, ritrovai nel vassoio tutta la sua puntigliosità.

Mi chiese del mio lavoro.

– La prima cosa che insegnano ai rappresentanti non è saper vendere il prodotto, sai?

– E cosa?

– Vendere se stessi, – pontificai.

– Non eri un bambino molto espansivo, se ricordo bene.

Avevo messo due cucchiaini di zucchero, ma il caffè era amaro come fiele.

Si alzò per sparecchiare. Lasciai cadere il discorso, perché aveva ragione. Osservai il lato B dalla porta. Una piccola, meschina rivincita.

Dalla cucina disse che preferiva le fotografie e che avrebbe frequentato un corso. Colsi l’occasione al balzo, finsi di essere mooolto interessato anche io.

Ritornò che sembrava un pistolero pronto al duello.

– Comunque hai ragione.

– Certo che ho ragione. Sono io quello del quadro! – La maestra Marta aveva chiesto a ognuno di ritrarre un compagno di classe.

– Non dicevo quello. Parlavo di te. Non sei mai stato bravo a venderti.

Mi iscrissi al corso solo per stare con lei. Sembrava un segno del destino averla incontrata, così per caso, dopo vent’anni.

Mi capita di innamorarmi almeno una volta al giorno. Durante la serata in un locale. Per strada. Alla fermata di un autobus.

Mi attira la capacità delle ragazze di ridere in pubblico; di tenersi per mano, incuranti di sguardi di biasimo; parlare ad alta voce dei fatti propri; lamentarsi di qualcosa che non va nel mondo e ricevere le scuse per il disagio da parte di uno sconosciuto.

La loro aria da extraterrestreche guarda la navicella spaziale volare via.

Mi rifugio nell’abitacolo. La gabbia di Faraday che mi isola dai rovesci della vita.

Lungo il tragitto non incrocio nessuno. Anche i clienti delle prostitute se ne sono rimasti a casa, stasera?

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Il destino di stelle cadenti, dal 15 febbraio 2019 negli stores online e in libreria

Da quando ci siamo ritrovati

Da quando ci siamo ritrovati - Anteprima di Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

Da quando ci siamo ritrovati, Federica non mi ha preso troppo sul serio

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Da quando ci siamo ritrovati – Milo

La neve accumulata ai lati occupa solo i posti gratuiti, chissà perché. Per trovarne uno ho dovuto parcheggiare lontano dal locale.

Dopo il prossimo incrocio, nei pressi delle vecchie mura romane, inizia il centro storico e la zona a traffico limitato.

A ogni turno elettorale, i candidati si sfidano sul tema del traffico. Ma pare che a questo problema non si trovi mai soluzione. A me, che non amo guidare, basterebbe avere un trasporto pubblico efficace. Intanto, devo ammettere che la pulizia delle strade è migliorata. L’anno scorso sono bastati dieci centimetri di neve per bloccare la città.

L’orologio digitale di una banca mi indica che sono in anticipo. Ironicamente, sostengo sia l’unico difetto che ho. Ho letto che i ritardatari sono più ottimisti dei puntuali. Per forza! Danno per scontato di non essere mai lasciati a piedi!

Affronto la salita che porta al ponte medievale con rinnovato impegno. Poi mancheranno pochi metri a destinazione: lo studio di Daniele, il nostro insegnante di fotografia. È poco distante dal pub dove passeremo la serata.

Ci deve consegnare i diplomi.

Fede non verrà, l’ha detto subito, ha un altro impegno. Allora perché sono tanto agitato? Sergio, che lavora già come fotografo sportivo, indosserà la solita tuta dell’esercito. Chissà, se avessi fatto anch’io la leva, forse apprezzerei quei cimeli.

Il ponte scavalca un antico corso d’acqua. Adesso è un fossato asciutto, adibito a parco. Non è tanto profondo, ci si accede dai due lati scendendo su vialetti di ghiaia. Ospita varie specie di piante e arbusti, con delle paline che ne descrivono le caratteristiche. A primavera emanano un profumo inebriante.

Da quando ci siamo ritrovati – Cassie

L’auto sembra un forno. Dopo pochi minuti il ricordo del freddo scompare. Apro il paltò e allento la sciarpa. Sono agitata. L’altra è Vanessa, la ragazza che aveva messo l’annuncio di affitto in bacheca, alla facoltà, al quale ho risposto?

– Io sono Greta, – si presenta invece. È castana, i capelli a caschetto. Assomiglia alla cantante Lene Marlin, una che ascoltava Matteo. L’espressione che le danno i denti da coniglietto me la rende subito simpatica.

L’autista si presenta come Saverio. Non parla mentre guida con accortezza. La strada, anche se pulita, è ancora insidiosa.

– Allora, prima stavi raccontando cosa hai combinato.

Mi tiro su le maniche del maglione, che mi finiscono sempre tra le dita.

– Ero così agitata, che ho sbagliato fermata, – dico, nascondendo un leggero imbarazzo. – Mi confondo ancora con tutti questi Giotto.

– E questa da dove arriva? – chiosa Greta, beffarda.

Ha già smesso di essermi simpatica.

Cris si gira indietro. – Lasciala stare, fa sempre così quando la concorrenza femminile aumenta.

Può stare tranquilla, l’ultima cosa che voglio è rimorchiare qualcuno.

Greta le fa una linguaccia, ma non smette di pontificare. – Vedi di svegliarti, carina, sennò questa città ti mangia! Non troveranno nemmeno le tue ossa. – Fa una risata chioccia.

Continuo a non capire. – Se tu sei Greta e lei Cris, chi è Vanessa?

– È mia sorella, – interviene Saverio. – Ha mandato me a prenderti. Lei ci aspetta all’appartamento.

Per un po’ nessuno parla. La carreggiata ampia mi dà l’ebbrezza di avere la strada della mia realizzazione spalancata davanti. Greta inizia a truccarsi; Cris fruga nella borsa che teneva tra le gambe; Saverio lancia una maledizione a un automobilista scorretto.

Arriviamo sotto un palazzo di cinque piani, dopo aver attraversato mezza città. Non conosco il quartiere, fino a ora ho frequentato solo la zona universitaria e i dintorni. Ci sono ancora le luminarie appese.

Le ragazze restano in auto, mentre io e Saverio, che si offre di portare la borsa, ci avviciniamo all’ingresso. Ci accolgono una donna sulla sessantina e una ragazza incinta. La donna non è per niente loquace. Accenna solo al fatto che non sono gradite visite sessuali, dice proprio così. Poi vuole sapere se ho versato le prime tre mensilità dell’affitto. Le assicuro di sì, e sento che è l’unica cosa che le interessi.

La ragazza incinta è Vanessa, finalmente. Ha già una bella pancia.

Saliamo in ascensore al mio alloggio.

– Spero ti piaccia…

– Cassie, – la anticipo.

– Cassie.

– Pensavo che l’appartamento fosse tuo.

– No, io gli faccio solo pubblicità. La signora è un po’ scorbutica, – sorride – e non se la cava molto bene con il marketing.

L’alloggio è composto di poche stanze, ma sufficienti per me. Lascio la borsa accanto al divano. Vanessa mi consegna le chiavi.

– Scendo a salutare le ragazze.

Torniamo in strada. Vanessa si avvia a piedi, abita qui vicino, con i suoi. Dice che un po’ di movimento le farà bene. Cris mi prende sottobraccio.

– Dove andiamo? – Le emozioni di oggi mi bastano e avanzano.

– Un pub in centro. Una meta obbligata per gli universitari. Ci devi venire asssolutisssimamente!

Da quando ci siamo ritrovati – Milo

C’è già gente davanti all’ingresso dello studio. Tutti che hanno il mio stesso difetto?

Mi hanno sempre affascinato gli ingrandimenti esposti in vetrina, che ritraggono matrimoni. Forse perché è un’esperienza che non vivrò mai.

Mai avuto storie serie.

Per quanto riguarda la fotografia, preferisco le notturne. Quelle che devi aspettare minuti, per catturare la luce giusta.

– Ciao, Milo!

– Ehi, Daniele, ci siamo tutti? – chiedo, con la speranza che lui dica stiamo aspettando Federica.

C’è Sergio, che sta mostrando la sua fotocamera nuova a un altro ragazzo, ma al momento mi sfugge il suo nome. Ovviamente in tuta dell’esercito.

Ci contiamo.

Un refolo di vento mi fa indugiare, mentre gli altri entrano. Sento arrivare di corsa qualcuno.

Mi volto. È Fede. Ho un tuffo al cuore.

Sarà che sono ammaliato da lei, ma sta bene qualunque cosa indossi. Anche un paio di leggings da corsa lilla, come stasera, sotto la giacca a vento bianca. Le piace evidenziare il suo profilo migliore. Ha la bocca di Julia Roberts, i capelli sono raccolti in una coda di cavallo, legati da un elastico in tinta con i pantaloni.

Da quando ci siamo ritrovati non mi ha preso troppo sul serio.

Bacia Daniele sulla bocca.

– Ci sono anch’io! – dice, tutta contenta. Anche gli altri lo sono.

Io un po’ meno.

Da quando ci siamo ritrovati – Cassie

Abdico al mio piano di rinchiudermi presto nella mia stanzetta.

– Vedrai quanti adoni ti gireranno attorno! – prevede speranzosa Greta, con il suo accento snob.

Intanto si tira come se andasse al ballo delle debuttanti.

Ci rimettiamo in marcia. Scendono ancora microscopici fiocchi. Svaniscono non appena si posano sul vetro.

Greta mi guarda come se si guardasse nello specchio. Gli occhi sembrano più orientali, le labbra appaiono più pronunciate. Io al massimo mi metto qualcosa sul viso, giusto per non sembrare un cadavere. Mi sfugge una risatina mentre ci penso. Cris ne è attratta.

– Che c’è da ridere?

Lascio fluire la risatina, finché si esaurisce naturalmente. – Così…

Mi sorride, sento già una buona intesa con lei, sarà per il modo nel quale mi ha accolto.

– Siete compagne di corso, tu e Greta? Non vi avevo mai viste in facoltà.

Greta annuisce, ma è ancora indaffarata nel farsi più bella.

– Siamo al terzo anno di economia. Come la sorella di Saverio. È così che abbiamo conosciuto lui. E tu?

– Letteratura.

– Per questo non ci vediamo. La nostra facoltà ha un ingresso diverso, in un’altra ala del complesso.

– Poi mia sorella è rimasta incinta, – interviene Saverio. Lo dice con tono saccente, come a dire che stupida che è stata a restarci. Ho il sospetto che lui sia allergico a certi sentimenti.

– Quando avrà il bambino?

– Il termine è il 20 di febbraio, – risponde, come se non vedesse l’ora di sbarazzarsi di un problema suo. – Secondo me è stato quel professore di… come si chiama, ragazze?

– Non dire sciocchezze, Saverio. È tua sorella! – lo sgrida Cris.

– Dai, tutti sanno che ci prova con le studentesse!

Sarei curiosa di sapere perché ha detto così, ma non lo chiedo. Meglio evitare di tirarsi addosso sguardi indagatori.

L’auto svolta nel portone di un parcheggio a più piani. Saverio abbassa il vetro per prendere il ticket.

Avevo bisogno di uno schiaffo d’aria fredda. Mi farà svegliare.

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Profondi occhi verde smeraldo

Profondi occhi verde smeraldo - Anteprima di Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

Un po’ nascosta dietro quelle di altri, quasi pudica, l’immagine alla quale dedico lo sguardo più struggente. 
Una ragazza. Profondi occhi verde smeraldo.

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Profondi occhi verde smeraldo – Milo

Il parco pubblico sembra congelato da secoli. Non ci sono segni di passi nella neve. Le panchine hanno la loro coperta bianca ancora intatta. I rami carichi degli alberi, si sfiorano come le dita di Dio e Adamo, nel Giudizio Universale di Michelangelo.

Potrebbe essere il set per un videoclip di Leonard Cohen. Anche i cani si trattengono dal turbare la quiete di questa glaciazione di quartiere.

Di tanto in tanto, un accumulo di neve perde l’equilibrio e cade formando pupazzi di neve in miniatura.

E i Babbo Natale si arrampicano ancora indisturbati sui balconi.

La muraglia di condomini tutti uguali, dove abito, è l’inferno dei postini. Per due volte di fila hanno messo le mie bollette elettriche nella cassetta sbagliata. Sorpreso dall’insana prospettiva di non dover più pagare, me ne sono fregato finché non sono arrivati i solleciti, via raccomandata. Dal piccolo balcone del mio appartamento, guardo nel giardino della villetta di fronte, l’unica con piscina, pregustando visioni paradisiache. Macché, ci vivono due sorelle sulla sessantina, che indossano sempre costumi da ventennio.

Salgo in ascensore, ho già camminato abbastanza per oggi. Per di più con scarsi risultati.

Fissando lo specchio all’interno della cabina, sono distratto dalla netta sensazione di aver già visto quella ragazza. Penso alla sua espressione da telefono casa.

Mi accoglie sul pianerottolo la televisione del vicino sordo. Il conduttore del quiz della sera urla come un ossesso. Il concorrente ha vinto un miliardo di lire. Del vecchio conio.

È stata proprio l’aria da svampita che mi ha colpito. Infilo nella toppa la chiave sbagliata. Forse ho solo immaginato il suo stato d’animo. Magari è la ragazza più decisa del mondo.

Nell’ingresso, su un piccolo mobile di legno ci sono le foto, di famiglia da un lato – io con i miei in piazza San Pietro; tre nonni superstiti, – dall’altro quelle di parenti e conoscenti defunti, perché e sempre meglio ricordarsi che quello che tu sei io ero, quello che io sono tu sarai.Il santino del nonno paterno, che se ne andò quando ero piccolo e, un po’ nascosta dietro quelle di altri, quasi pudica, l’immagine alla quale dedico lo sguardo più struggente. 

Una ragazza.

Profondi occhi verde smeraldo.

Sul piano della cucina c’è ancora il cesto di prodotti tipici che i miei genitori mi hanno regalato a Natale. Hanno vissuto molto tempo lontano delle loro origini. Entrambi emigranti a Torino, dove si conobbero, ma venivano dallo stesso paese del Gargano. Tornarono giù solo per sposarsi. Dopo la luna di miele salirono direttamente qui, senza ripassare per Torino, dove un anno dopo sono nato io. Quattro anni fa si sono stabiliti definitivamente al paese e gestiscono un B&B.

Intanto che la stufetta scalda il bagno, scelgo una giacca effetto sdrucito, da mettere sopra dolcevita e pantaloni di velluto. Nella mia mente il tutto deve fare un po’ artista. La scelta delle scuole superiori l’ho sbagliata in pieno. A quell’età è una lotteria azzeccare la strada giusta, soprattutto quando dicono a tua madre che suo figlio può scegliere la scuola che vuole

Mi butto sotto la doccia. Il getto è bollente.

Davanti allo specchio appannato mi impomato i capelli, mentre faccio il verso a John Travolta in “Grease”. Non mi piace. Ficco la testa sotto il rubinetto e ricomincio da capo. Raggiungo un compromesso accettabile, ma…

Fisso il me stesso nello specchio. Per chimi sto infighettando, se Federica non ci sarà?

E sono in ritardo.

L’auto parcheggiata sotto casa sarà coperta di neve. Sapevo che stasera mi sarebbe servita.

Anche se non immaginavo che avrebbe nevicato così tanto. 

Profondi occhi verde smeraldo – Cassie

Da quella parte c’è la stazione. L’alone luminoso delle luci galleggia appena tra l’oscurità del cielo e i profili dei palazzi.

Arriva l’eco degli annunci. Chi parte, chi arriva. Chi resta.

Una donna si scalda le mani a un fuoco, le gambe quadrettate sbucano fuori dalla pelliccia. Attraverso l’incrocio guardandola. Non gliene faccio una colpa, sarà costretta, credo. Mi disgustano di più i vecchi pieni di pila, come quello lì con la macchinona… oddio e adesso che fa? Pensa che sia una di quelle?

Mi affianca. Cerco di guardare diritto davanti a me. Sono sicura che mi stia fissando. Intravedo il suo profilo, gli occhiali sul naso, da professore di matematica.

Accelero e accelera anche il mio cuore. Per fortuna la fermata Giotto – stazioneè appena oltre l’incrocio. 

Di colpo sgomma. Due enormi fari rossi si allontanano come grandi occhi animali.

Respiro.

Non so perché, mi ritorna in mente il tipo della fermata. No, sono sicura di non averlo mai visto prima.

Devo averci messo un quarto d’ora buono. Sono fuori allenamento e reduce dai pranzi natalizi a casa. L’ultima volta che ho corso seriamente è stato al liceo, quindi due anni fa. Anzi, più di due anni! Era stato in occasione delle gare giovanili, sui 60 metri piani, prima dell’estate. Ho la medaglia d’argento appesa in camera, ma dovrò presto staccarla per portarla nella casa nuova.

Non sono ancora arrivati. Le telefono? Mi sentirei troppo patetica a scongiurarli di tornare indietro a prendermi. Penso positivo. Di certo stanno per arrivare.

Un’utilitaria mi sorpassa, con le quattro frecce accese. Frena, quasi si ferma. Saranno loro? Poi accelera un po’ e prosegue, fino a fermarsi alla pensilina.

Sono davvero loro! Corricchio, per quanto me lo permettano le gambe affaticate e la borsa con le cose che mi serviranno i prossimi giorni, prima del trasloco.

Alzo la mano per attirare l’attenzione. Non serve. La portiera anteriore si apre e scende una ragazza. Ha un cappuccio per ripararsi dalla neve che però non cade più.

– Cassiopea? – grida da lontano.

Alzo la mano in un saluto scoordinato, ondeggio un po’, stanca.

– Sono io! Ho fatto un casino!

Quando la raggiungo non riesco a parlare.

– Ho. Fatto. Una. Corsa. Per. Arrivare. In. Tempo.

Mi guarda divertita. – In tempo?

Sorrido, imbarazzata. Mi da tre baci sulle guance.

– Dai a me, – dice, indicando la borsa.

– Scusami, Vanessa, avrei dovuto chiamarti. – Dall’espressione di finta offesa capisco di aver sbagliato da qualche parte. Ma dove?

– Io sono Cris. – Un’altra che come me non ama il proprio nome? – Sali, mentre andiamo ci spiegherai cosa hai combinato. 

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Il destino di stelle cadenti, dal 15 febbraio 2019 negli stores online e in libreria

Cosa mi manca? Un padre, forse?

Cosa mi manca? Un padre, forse! - Anteprima di Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

– Cosa ti manca, qui? – ha sentenziato lei, pensando di prendermi di sorpresa.

E io ho dovuto proprio dirglielo. – Cosa mi manca? Un padre, forse?

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Cosa mi manca? Un padre, forse? – Milo

Forse si era persa e aveva bisogno di aiuto. Figuriamoci, una che viaggia nello spazio, che si perde in una cittadina qualunque della terra! E se si fosse tele-trasportata sul serio?

Però sembrava anche molto carina.

Ma a ogni giorno basta il suo affanno. Devo già affrontare Federica, stasera. Sempre che ci sia. Vado verso casa immaginandola arrivare su un disco volante.

In strada le automobili hanno una coperta di neve di dieci centimetri. Mi tolgo un guanto e affondo la mano nella coltre sul parabrezza. Ne raccolgo una manciata e la assaggio.

Anche la neve sa di polveri sottili.

Cosa mi manca? Un padre, forse? – Cassie

Non posso perdermi! 

Il senso di apertura che può dare una città, rispetto al mio paese, dove tutto è più a portata di mano e di piedi, ha i suoi contro. Facile perdersi, lasciarsi trasportare dalle strade larghe, ma comunque…

Non posso perdermi!

Non voglio dar ragione a mamma e a Renato. La cosa che odio di più! Dare ragione a Renato, voglio dire. Lei è pur sempre mia mamma. Anche se non mi capisce.

So badare a me stessa. Sono stufa marcia di dirglielo, tanto non vuole capire.

Pensavo che uscendo dalla maturità con il massimo dei voti, avrei avuto il dirittodi fare quello che volevo. Invece no! Che fatica per convincerli a lasciarmi andare!

Mi ricordo bene il giorno dei voti della maturità.

Mi fiondai nel parcheggio del Liceo Classico Italo Calvino in sella alla bicicletta di mamma. Devo ammettere che avevo una certa agitazione. Mi ero appiattita il culo sulla sedia, pur di avere il massimo! Vedevo anche un voto in meno come un ostacolo in più alla mia libertà.

Ne andava della mia vita.

C’era ressa sulla scalinata d’ingresso. Chiacchiere eccitate, abbracci, facce deluse e qualche lacrima. I corridoi erano in subbuglio. Alcuni insegnanti conversavano tra loro o con altri studenti. Si scambiavano complimenti.

– Ciao raga.

– Bella, Cassie!

La Betty, Marta, la Pimpa, Anto, le mie compagne, sapevano già i loro voti e anche il mio. Insopportabili ficcanaso! Scherzo. Marta, la mia migliore amica, mi fece la faccia brutta, ma non riuscì a trattenere il sorriso per molto.

Le abbracciai e baciai una a una.

Mi avvicinai con cautela alla bacheca dei voti.

L’euforia mi prese dopo un bel po’, una volta assorbita la sensazione di avere fatto solo il mio dovere.

Dovevo dirlo subito a Matteo, il mio fratellone.

– Pronto, sorellina!

Ero al settimo cielo! Sentivo la bocca tirata in un sorriso da plastica facciale.

– Ciao, fratellone.

– Hai la voce di chi sta per fare un annuncio eccezionale. – Sa sempre capirmi al volo.

– Mi vergogno quasi a dirlo.

– Non mi immagino la mia sorellina imbarazzata.

– 100 e lode!

– Grande, Cassie! Potrai fare l’università che vuoi!

A quel punto stetti zitta per un minuto buono, mi parve.

– Ci sei, sorellina? Che c’è, non sei contenta?

Certo che lo ero! Non aspettavo altro. Per essere libera. – Mi darai una mano a convincere mamma a lasciarmi partire?

Lui sì che mi capisce. Forse perché non è davvero mio fratello? Ha nove anni più di me, frutto di un amore giovanile di mamma. Il primo ricordo che ho di lui è quando a tre anni, dopo una caduta in bicicletta, si prese cura di me. Per questo ero sicura che mi avrebbe aiutata a convincerli.

Arrivata a casa ritornò fuori il discorso.

Credo che se avesse potuto, mamma mi avrebbe lanciato il mestolo sporco di sugo al pomodoro.

– Perché mi tratti così? – mi ha chiesto, sull’orlo del pianto.

Non me la fai! Il potere delle lacrime non funziona con me.

– Io e papà… – ha ripreso.

L’ho bloccata subito. – Tu e Renato ,– ho precisato, incazzata.

– Perché puntualizzi sempre, Cassiopea?

Perché è così! Lui non è mio padre! – E tu perché continui a chiamarmi Cassiopea!

– Perché è il tuo nome.

Già e non mi piace, e lei lo sa, ma lo usa come un guinzaglio, per tenermi legata!

Appoggia il mestolo e mi guarda addolorata. – Ma noi lo facciamo per il tuo bene.

– E allora lasciatemi vivere la mia vita! In tanti paesi i genitori buttano i figli fuori di casa a vent’anni, perché facciano le loro esperienze.

– Cosa ti manca, qui? – ha sentenziato lei, pensando di prendermi di sorpresa.

E io ho dovuto proprio dirglielo. – Cosa mi manca? Un padre, forse?

Poi sono corsa in camera a piangere dal nervoso.

Sento Renato rientrare dal lavoro. Li sento discutere a voce alta.

– Avete litigato? Ancora per quella storia?

– Sì. Sembra che ogni giorno che passa sia peggio. Non so chi le ha messo in testa questa idea. Forse se provi a parlarle tu.

So già cosa sta succedendo. Renato la abbraccia, ma senza convinzione, come un atto dovuto. E ora gli dirà…

– Sei sua madre. Quello che scegli tu, per me va bene.

La solita solfa, non ci prova nemmeno a farmi da padre. Potrei dargli una possibilità, se facesse il primo passo.

– Prova a parlarle tu, ti prego!

– Non so se servirebbe. Comunque le passerà, vedrai.

Dopo qualche istante di silenzio, sento dei passi e lui che si schiarisce la voce. Deve averlo convinto con le sue occhiate afflitte. Bussa.

– Cassiopea.

Trattengo anche il respiro.

– So che sei lì, Cassiopea. Apri e parliamone da persone civili.

Se mi chiama così per la terza volta, col cavolo che apro.

– Possiamo trovare un compromesso.

Apro per terminare questa pantomima. – L’unico compromesso è che mi lasciate andare.

– Ti ho mai fatto mancare niente?

– E tu pensi di volermi bene perché non mi fai mancare nessuna cosa? Non ci sei mai, non prendi posizione, non ti interessi dei miei desideri, come farebbe un padre. A volte, se io ci sono o no, forse neanche te ne accorgi. Quindi tanto vale che me ne vada.

Alla fine abbiamo trovato un compromesso, che gli alleggerisca in qualche modo la coscienza. Frequenterò l’università come pendolare fino a Natale e, se sarò proprio sicura di andare avanti, potrò cercare un appartamento. Mi verserà sul conto una cifra mensile, per pagare l’affitto e la altre spese, finché non avrò un lavoro che mi faccia guadagnare il necessario. 

Quindi, se stasera va male, devo ritornare in gabbiacon la coda tra le gambe.

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Il destino di stelle cadenti

Il destino di stelle cadenti un romanzo di Emanuele Zanardini
Il destino di stelle cadenti
di Emanuele Zanardini

Una lunga attesa, tanti desideri, si rimane a bocca aperta in quell’istante di luce e stupore, ma poi nessuno si preoccupa del destino di stelle cadenti. 

Il destino di stelle cadenti, un romanzo di Emanuele Zanardini

Inverno

Era stato insolitamente mite quell’anno. Fino a quel giorno.

Al mattino c’era stato un sole tiepido, e sereno, promessa di una giornata luminosa. Nel giro di poche ore, invece, con l’oscurità era arrivato il freddo pungente. E la neve. Come la pellicola che si forma sul latte caldo, i fiocchi disordinati davano consistenza all’aria. L’unico tocco di colore erano gli aloni giallastri dei lampioni. Attorno alle lampade, come gli insetti nelle serate estive, turbinavano i piccoli cristalli gelati.

C’erano molte luci natalizie ancora appese sopra le strade, ai palazzi, alle finestre. Le festività erano state accolte come un esercito liberatore. Il cambio di anno induceva nelle menti pensieri positivi. Portava con sé tutto il corollario di detti riguardanti l’inizio dell’anno nuovo. Chi fa l’amore il primo dell’anno… O riti propiziatori, come indossare biancheria intima rossa. O baciarsi sotto il vischio… e chi lo aveva visto mai, il vischio!

In capo a pochi giorni, dopo che le festività se le era portate via l’ultima, ci si accorse che tutto procedeva secondo il solito copione. Erano state una sorta di isola, nel mare troppo spesso immobile della quotidianità.

I guidatori erano rimasti sorpresi da come velocemente potesse cambiare il tempo.

Un serpentone di automobili, una corda di smog e polveri stretta attorno al collo della città. Gli operai della Protezione Civileimpegnati a pulire i marciapiedi, con il naso all’insù, stimavano i centimetri di neve che stavano per cadere.

Le strade erano pulite. Il traffico scemava gradualmente verso il centro, lento ma ordinato. Viale Giotto era la via d’accesso principale, che tagliava la periferia in due metà speculari. A sinistra si andava verso la collina, vero e proprio feudo dell’élite cittadina. A destra si svoltava per raggiungere la stazione ferroviaria, territorio privilegiato di senzatetto e prostitute. Gli ultimi pendolari del treno della sera, percorrevano i marciapiedi a passo affrettato. Non tanto per il desiderio di arrivare a casa, ma per evitare incontri sgradevoli.

Le case avevano l’insopportabile ordine delle tombe di un cimitero. Costruite in serie negli anni ‘80, avevano seppellito, murato vive emozioni e rabbia. Andando di casa in casa per lavoro rischiava di liberare quegli istinti incontrollabili.

E a farne le spese sarebbe stato lui.

Il destino di stelle cadenti – Milo

Sono stanco.

Del mio lavoro. Di mangiare sempre in fretta. Di target da raggiungere. Del mio lavoro… l’ho già detto?

Vivo qui da solo da quattro anni, dopo la triennale in economia. L’azienda che mi aveva assunto, cercava una risorsa per l’ufficio acquisti. Ho già cambiato diversi lavori da allora, tutti temporanei.

E ora ci risiamo. Per fortuna non ho l’affitto da pagare, l’appartamento è mio.

Da qualche giorno girano voci di un possibile taglio del personale. Nessuno lo dirà apertamente, ma a chi toccherà, se non all’ultimo arrivato? Giulio, il mio tutor in questi primi mesi di lavoro, ha cercato di tranquillizzarmi. Andiamo in giro insieme, sulla sua auto aziendale, mentre a me per ora hanno pagato l’abbonamento per i mezzi pubblici. Un segno? La borsa appoggiata sul pavimento si è bagnata. Dovevo immaginarlo.

Sono già stufo dell’inverno.

I miei geni sudisti si ribellano al clima nordista.

La città sta smaltendo ancora la sbornia festaiola del capodanno. I cartelli pubblicitari che augurano Buon Anno!a tutti sembrano già una vestigia di un glorioso passato. Certo, la neve regala l’illusione di essere ancora nel grembo rassicurante del Natale. Foderato di buone intenzioni. E le cattiverie rimandate a tempi peggiori.

Ho passato le feste a casa dei miei, ma solo perché la ditta ha chiuso una settimana. Non mi sono azzardato a chiedere le ferie.

Stiamo arrivando alla mia fermata, l’ultima prima del capolinea. Dovrò abbandonare il calduccio del sedile, di questo spazio chiuso, che sa di tante cose. Un abile assaggiatore saprebbe dire gli ingredienti che compongono l’atmosfera di quest’autobus. A me è rimasto solo il sapore sgradevole del pranzo in quella tavola calda sotto le mura, dove serve quella cameriera davvero figa. Non mi era mai successo di avanzare qualcosa.

Gratto un pezzetto di vernice rossa dalla scritta di due innamorati. Un cuore trafitto e due iniziali. Chissà chi è l’uno e chi l’altra.

Il bus rallenta, i dischi dei freni stridono. Scommetto che arriveremo alla fermata nello stesso istante di quel pullman della STEU1, che arriva dall’altra parte.

Scommessa presa! Sembra quasi che si siano messi d’accordo.

Il motore sbuffa. Siamo rimasti solo in due, io e uno studente, uno sfigatello occhialuto che se fossi i suoi lo prenderei a schiaffi dal mattino alla sera.

Scendo i gradini ricoperti di gomma anti-scivolo. Appena a terra i fiocchi mi bagnano la testa. Sento un brivido. Il mio corpo ha la memoria del freddo preso inutilmente nel pomeriggio.

L’autobus riparte. Anche il pullman. Nello stesso istante.

Sotto la pensilina blu è rimasta una ragazza. Tra la neve che scende, è una visione quasi confusa. Indossa un paltò rosso scuro e la sciarpa, grigia, le copre il mento. Una ciocca di capelli biondi le ricade sull’occhio sinistro, spunta dalla berretta dello stesso colore del paltò. La borsa tenuta con entrambe le mani, davanti. Le maniche del maglione tra le dita.

È la prima volta che la vedo.

Sembra un’extraterrestreche guarda la sua navicella spaziale volare via.

Il telefono mi vibra in tasca. Un messaggio. Daniele mi ricorda l’appuntamento di stasera.

Perdo qualche istante per rispondere. Schiacciato invio, tiro su la testa. La ragazza venuta dallo spazio non c’è più. Teletrasporto, un classico.

E nel sottobosco delle mie sensazioni, sento un presagio. Non so ancora se e quanto funesto.

1Società Trasporto Extra Urbano

Il destino di stelle cadenti – Cassiopea, detta Cassie

Sono in ritardo sparato!

Dovevo trovarlo proprio io l’aspirante suicida! Per carità, mi dispiace abbia problemi, e anche molto seri per buttarsi sotto un autobus, solo poteva scegliere un altro modo. Senza sconvolgere il mondo intero!

Mi sono scritta un biglietto con le istruzioni per arrivare. Fermata Giotto – parco, ore 19,50.Ho pensato che se le scrivevo sul telefono e poi quello non s’accendeva più? Non si sa mai. Sono negata con la tecnologia.

L’orologio dice che manca ancora un quarto d’ora. Il pazzo non è riuscito a farmi tardare.

Guardo la scritta sul tabellone degli orari. Non è possibile. Fermata Giotto. È la fermata sbagliata!

Ha ragione mamma a dire che non sopravvivrò all’inverno, da sola.

Ci sono ben quattro fermate su viale Giotto. E Giotto – parco è l’ultima e viene dopo Giotto – Teatro comunale e Giotto – stazione.Mi mandano ancora in confusione questi nomi uguali. 

Il tizio dall’altra parte mi guarda fisso. Perché mi fissa così, non sarà qualcuno che ho conosciuto, ma non ricordo chi è… Oddio, adesso viene a salutarmi e faccio una figura di merda.

Stai concentrata! Ora il tuo problema è un altro: quanto distante sarà la fermata Giotto – parco a piedi? Riuscirò ad arrivare in tempo all’appuntamento?

Il tipo dall’altra parte è ancora lì. Lo guardo senza farmi scoprire. È l’unico a cui potrei chiedere un passaggio in auto. Cassie, anche lui era in autobus! E poi, se è davvero uno che non ricordo?

Andrò a piedi, anche se arrivo un po’ in ritardo, il quarto d’ora accademico non si nega a nessuno. No?

Il destino di stelle cadentisegue


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